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STRESS DA “CONFLITTUALITÀ LAVORATIVA”.

15 marzo 2024

Con sei ordinanze emanate tra gennaio e febbraio 2024, la Corte di Cassazione ha sancito un rilevante ampliamento della responsabilità del datore di lavoro nell'ambito della tutela della salute psicofisica dei lavoratori dipendenti, ai sensi dell'articolo 2087 del Codice Civile. 

Le citate pronunce hanno, infatti, introdotto un orientamento innovativo rispetto al passato, ravvisando un inadempimento datoriale delle obbligazioni contrattuali di tutela dell'integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro (ai sensi dell'articolo 2087 c.c.) anche in tutte quelle ipotesi che non concretizzino gli estremi del mobbing ma che configurino, in ogni caso, una situazione di stress da "conflittualità lavorativa". 


In particolare, secondo la Suprema Corte, il controllo giudiziale non può dunque limitarsi al solo accertamento dell'elemento oggettivo e soggettivo del cd. "mobbing" (definibile, per consolidata giurisprudenza, come una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro), ma deve spingersi a "valutare e accertare l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente". 

Ne deriva che, anche in assenza di condotte manifestamente persecutorie, il datore di lavoro potrebbe essere ritenuto responsabile per non aver messo in atto misure volte a prevenire e a rimuovere situazioni - nell'ambito dell'organizzazione del lavoro o dell'ambiente lavorativo - idonee a generare una condizione di stress e, quindi, un danno alla salute del prestatore di lavoro. 

Questo vale, ad esempio, in caso di un ambiente connotato da continue liti e screzi reciproci, laddove il datore di lavoro non sia intervenuto per prevenire e/o per rimuovere tale clima conflittuale. 

Sempre secondo quanto statuito dalle menzionate ordinanze, il mancato intervento del datore di lavoro per prevenire e/o per rimuovere situazioni stressogene ne determina la responsabilità anche solo in presenza di colpa: l'eventuale reiterazione dell'inadempimento, così come la presenza e l'intensità del dolo del datore di lavoro, possono, infatti, al massimo incidere sul quantum del risarcimento dovuto al lavoratore. 

La tendenza sottesa a tale orientamento è quella di porre al centro dell'organizzazione del lavoro la salute fisica e mentale dei lavoratori, mettendola al riparo da qualsiasi situazione di conflittualità che possa comprometterla. 

Spetta, in ogni caso, al prestatore di lavoro provare le circostanze fattuali che hanno generato la situazione stressogena, la sussistenza del danno e il nesso causale tra questo e l'ambiente di lavoro, mentre il datore di lavoro ha l'onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie a prevenire e a impedire la situazione stressogena che ha determinato il danno stesso.

In ipotesi di contenzioso, quindi, sarà decisivo per il datore di lavoro dare evidenza di quali misure siano state messe in campo a tutela della salute psicologica dei propri collaboratori, anche tramite canali di segnalazione interna utili a porre in essere tempestivamente ogni azione necessaria per garantire un ambiente di lavoro idoneo.

Fonte: https://dwfgroup.com

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